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RENATO LOIERO

RENATO LOIERO

Consigliere parlamentare

L’economia italiana del futuro prossimo e la sfida del Pnrr

Il vero “tallone di Achille” dell’economia italiana è la scarsa crescita registrata negli ultimi vent’anni. Nel ventennio 1999-2019 l’economia italiana è cresciuta in media circa del 7,9%, mentre la Spagna è cresciuta del 43%. Come riprendere il percorso di crescita nei prossimi due anni? Il nostro ritardo deriva dalla scarsa dinamicità della produttività totale dei fattori, dovuta soprattutto al basso livello di concorrenza. Il nostro sistema produttivo, specialmente delle piccole e medie imprese del centro-nord, riesce molto efficacemente a competere sui mercati internazionali. Tuttavia, nei mercati protetti dalla concorrenza internazionale il livello di produttività, che determina poi il livello medio di produttività, invece, stagna da tanti anni.
L’economia italiana è pienamente ed indissolubilmente inserita nel contesto continentale. Inoltre, la governance di finanza pubblica è allo stesso tempo inserita nel quadro delle regole europee.
Il 23 maggio 2022 la Commissione europea ha pubblicato le Comunicazioni (COM (2022) 600 final) nell’ambito del “pacchetto di primavera” del Semestre Europeo. Quest’anno, l’attenzione è focalizzata su due aspetti principali: la ripresa economica nella fase di uscita dalla pandemia da Covid-19, con il ruolo fondamentale del RRF, e l’emergenza umanitaria ed energetica causata dall’attacco russo all’Ucraina. Da un lato, la pandemia mostra finalmente il suo definitivo affievolimento e la maggior parte delle misure restrittive implementate negli ultimi due anni nei vari Stati sono state abolite. Secondo le ultime previsioni di primavera della Commissione UE, l’economia europea proseguirà su un sentiero di crescita nel 2022 (+2,7% per il PIL) e nel 2023 (+2,3%), anche se numerose incertezze permangono, legate alle pressioni inflazionistiche e agli ostacoli nelle catene della distribuzione internazionale. In questo contesto, il documento presentato dalla Commissione è dedicato specificamente alla analisi approfondita della situazione economica italiana.
Le trasformazioni introdotte nell’architettura della governance economica europea durante la pandemia hanno rappresentato una accelerazione repentina verso un “cambio di paradigma” per l’UEM che era già in corso di discussione. A livello concettuale, è chiaro che sia la stabilità dei prezzi che la stabilità macroeconomica richiedono contemporaneamente che le posizioni di bilancio siano sostenibili e che la politica di bilancio operi in modo anticiclico. Negli ultimi vent’anni, l’andamento macroeconomico dell’area euro ha risentito sia di episodi di problemi di sostenibilità fiscale in alcuni paesi membri, sia di prociclicità fiscale (sia in congiuntura positiva che negativa). Naturalmente, sostenibilità fiscale e anticiclicità fiscale sono interconnesse: non è possibile rispondere in modo anticiclico a uno shock recessivo se viene messa in discussione la sostenibilità del debito. A sua volta, la sostenibilità del debito richiede l’impegno ad agire in modo anticiclico anche durante i periodi di forte andamento economico, riducendo il rapporto debito/PIL e costruendo riserve di bilancio. Un quadro del PSC efficiente può dare un contributo importante ai risultati macroeconomici dell’area dell’euro. In particolare, il controfattuale di un completo decentramento della politica fiscale non è auspicabile da una prospettiva a livello di area euro. In particolare, è improbabile che i responsabili delle politiche nazionali internalizzino le implicazioni delle loro decisioni per l’orientamento di bilancio aggregato dell’area dell’euro e tengano pienamente conto degli effetti di ricaduta della loro politica interna sugli altri paesi membri di un’unione monetaria. In particolare, si verificano effetti di ricaduta negativi se un paese membro ha una posizione di bilancio insostenibile, adotta una politica di bilancio prociclica o riduce la produzione potenziale attraverso politiche strutturali contrarie alla crescita. La pandemia ha aggravato un’agenda fiscale già difficile. Tutti i paesi membri devono affrontare le implicazioni macroeconomiche e di finanza pubblica delle società che invecchiano. Inoltre, un PSC efficiente deve anche tenere conto del fatto che l’Europa non può ignorare o ritardare la necessità della transizione verde e della trasformazione digitale. Ciò implica notevoli sforzi di investimento pubblico anche al di là dell’orizzonte del NGEU
Una riforma del patto di stabilità e crescita dovrebbe affrontarne i principali punti deboli al fine di sostenere il conseguimento del duplice obiettivo di stabilizzazione macroeconomica e sostenibilità di bilancio.
Come proposto dall’European Fiscal Board e da altri contributori, un quadro semplificato a due livelli che consiste in una regola di spesa collegata a un ancoraggio del debito ridurrebbe la complessità delle regole di bilancio e allineerebbe meglio la stabilizzazione di bilancio con le sfide della sostenibilità di bilancio. In termini di ancoraggio del debito, gli esercizi di simulazione indicano che un percorso di aggiustamento sostenibile potrebbe prendere un percorso più graduale rispetto all’attuale regola del ventesimo. Concretamente, i requisiti di aggiustamento potrebbero essere calibrati per garantire il rispetto del percorso di aggiustamento del debito su un orizzonte prospettico di dieci anni.
L’elemento di particolare novità di NGEU è rappresentato dal fatto che con il Pnrr si avvia, finalmente, un accenno di fiscal union, di bilancio dell’Unione europea, che, come noto, è la seconda gamba della politica economica europea. Questo profilo della politica economica europea che, però, è mancato sin dall’inizio. Abbiamo avuto una politica monetaria unica e ciò ha costretto tutti i Paesi a adeguarsi a un vestito a misura unica. Tuttavia, non abbiamo avuto un bilancio dell’Unione europea. Il bilancio dell’Unione rappresenta e assorbe circa solo l’1% del Pil ed è destinato ad alcune politiche settoriali: dalla politica di coesione alla politica agricola.
L’impulso del PNRR dal lato della domanda è certamente consistente, ma esaurisce i suoi effetti nell’arco di quattro anni. Se non accompagnato dagli effetti dal lato dell’offerta in termini di aumento della produttività totale dei fattori si rischia un pericolo scompenso.
Sono dunque determinanti tre riforme strutturali che dipendono dalla politica nazionale e alle quali sono collegati i fondi del NGEU: la riforma fiscale, la riforma della pubblica amministrazione e la riforma della giustizia.
Per il fisco (pur assodato che la riduzione del carico non può essere finanziato da risorse PNRR) si può ragionare su una riduzione del cuneo fiscale e contributivo.
Abbiamo quindi un periodo di tre anni per utilizzare bene i fondi europei e per realizzare congiuntamente le riforme strutturali italiane che sosterranno l’impulso di crescita dei fondi europei.
Se tale ingente ammontare di risorse sarà effettivamente erogato dalla UE (per la parte di sua competenza) ma non sarà utilizzato dall’Italia in modo efficace ed efficiente, dopo il 2023 il rischio è di ritrovarsi con un Paese che sarà ancora più indebitato ma che non avrà rafforzato il proprio tasso potenziale di crescita. Questa eventualità è molto preoccupante perché, in quell’anno, verranno reintrodotte le regole fiscali europee riguardanti i bilanci nazionali e vi sarà un rallentamento nella politica monetaria espansiva attuata negli ultimi sette anni dalla Banca centrale europea.
L’Italia gode di posizioni di vantaggio comparato rispetto alla già eccellente media della UE e dell’euro area in termini di “economia circolare” e di energie sostenibili. Tuttavia, gli obiettivi del RRF e – almeno in parte – del nostro PNRR sottolineano che l’economia italiana deve superare almeno tre fattori di grave debolezza.
A fronte di ciò e nonostante un nucleo di attività sulla frontiera dell’innovazione tecnologica, va ricordato che la maggioranza delle imprese italiane sono PMI con una produttività bassa o stagnante. Ciò vale soprattutto per il settore dei servizi e nei settori protetti dalla competizione internazionale ma riguarda anche componenti rilevanti del settore manifatturiero. Pertanto, se vuole misurarsi con la transizione digitale e ripristinare un’adeguata dinamica della produttività, gran parte delle imprese italiane deve attuare processi di aggregazione e di ristrutturazione molto più profondi di quelli richiesti in altri grandi Paesi dell’euro area. Per giunta, anche una quota del ristretto numero di imprese italiane di eccellenza dovrà misurarsi con costose riconversioni produttive.
In secondo luogo, ancor più degli altri grandi Paesi dell’euro area, l’Italia ha mercati finanziari non-bancari sottodimensionati. La schiacciante maggioranza delle imprese italiane ha una struttura finanziaria incentrata sull’autofinanziamento e sul debito bancario; nonostante la sua recente e forte crescita, il mercato dei corporate bond è ancora sottodimensionato; i mercati azionari coinvolgono un ristretto numero di imprese private nazionali; gli investitori istituzionali sono deboli e hanno allocazioni di portafoglio molto prudenziali. Una tale articolazione finanziaria, che si accompagna ad assetti proprietari incentrati sulla figura dell’imprenditore capo-famiglia, è inadeguata per rendere disponibili le risorse necessarie alle ristrutturazioni, aggregazioni e innovazioni tecnologiche. Ne deriva che la già difficile scommessa di realizzare gli investimenti pubblici, inseriti nel PNRR, si combina con un insufficiente sostegno agli ingenti investimenti privati che sarebbero necessari per completare cambiamenti così profondi.
La criticità del PNRR, che deriverebbe dalla mancata attuazione delle riforme generali approvate nelle loro linee-guida, trova un complemento nella non chiarissima ripartizione dei compiti tra Stato ed autonomie territoriali per l’effettiva realizzazione dei progetti del PNRR italiano. Come è noto, molti di questi progetti (costituiti, in genere, dalla combinazione di riforme e investimenti) sono affidati al ministero competente per materia. Spesso il ministero non ha, tuttavia, il compito di attuare direttamente le varie parti dei progetti. Seguendo le procedure vigenti, esso è chiamato ad assegnare ciascuna di quelle parti alle regioni, agli enti locali oppure a imprese o ad altri operatori di mercato. La tendenza dei ministeri, che può essere desunta da esplicite dichiarazioni pubbliche, è di considerare assolta la propria funzione (e, dunque, completati i progetti di competenza) una volta che tutte le componenti di quei progetti sono state assegnate all’esterno e le relative poste finanziarie sono state iscritte nei budget. Come mostra la storia recente (e tutt’altro che esemplare) dell’utilizzo italiano dei Fondi strutturali europei, il nostro Paese talvolta non ha brillato per la sua capacità di utilizzare una quota consistente di quei fondi, che pure sono finanziati a progetto e non a risultato (come succede col PNRR). Questa semplice constatazione raccomanda un attento controllo, in corso d’opera (come si suole dire), della fase di attuazione di ogni singola parte dei progetti del PNRR italiano da parte di strutture centrali e pubbliche.
Il Pnrr non dovrebbe essere un mero trasferimento di risorse finanziarie per compensare uno shock asimmetrico, ma uno strumento strategico di lungo termine per rinsaldare il legale economico e sociale tra Italia e Unione europea, riallineando l’Italia al percorso di crescita degli Stati più dinamici e integrandolo nelle nuove filiere sostenibili ad alta tecnologia che trasformeranno i mercati globali nei prossimi anni. I fondi dovranno essere ripagati dalle nuove generazioni: non debbono essere destinati a distribuire bonus e prebende per i padri d’Italia, bensì a costruire piattaforme d’offerta di prodotti e servizi innovativi e sostenibili per i figli dell’Europa di domani.

le opinioni sono espresse a titolo strettamente personale

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