intervista Maria siclari, direttore generale di ispra
Direttore Siclari, fenomeni quali la siccità, gli incendi, eventi metereologici estremi, che hanno generato una vera emergenza nel Paese, sono tutti riconducibili ai cambiamenti climatici. Qual è lo scenario a cui dobbiamo prepararci?
Negli ultimi decenni abbiamo assistito sempre più frequentemente a cambiamenti nel sistema climatico dovuti al riscaldamento dell’atmosfera, dell’oceano e delle terre emerse e ad eventi estremi climatici in molte aree della Terra, con ondate di calore più intense e più frequenti, periodi di siccità prolungata, numerosi incendi, aumento degli eventi di precipitazioni estreme, con conseguenti impatti sul territorio. Anche nel nostro Paese stiamo assistendo ad un intensificarsi di questi fenomeni, che conferma il rapido cambiamento climatico in atto. Le elaborazioni di ISPRA, basate sui dati meteoclimatici del Sistema Nazionale di Protezione dell’Ambiente e delle principali reti di monitoraggio sul territorio nazionale, indicano un marcato trend in aumento della temperatura media in Italia di +0.37°C in 10 anni dal 1981, associato ad un aumento significativo degli estremi di caldo e a una riduzione degli estremi di freddo e per il futuro si prevede un ulteriore riscaldamento globale. In particolare, l’ultimo rapporto IPCC (International Panel on Climate Change) sulla base delle ultime proiezioni dei modelli climatici, ci dice che l’area del Mediterraneo continuerà a riscaldarsi ulteriormente rispetto alla media globale, particolarmente in estate, che diventerà più arida per l’effetto combinato della diminuzione delle precipitazioni; si prevede inoltre un incremento rilevante del rischio di siccità. Allo stesso tempo, in alcune aree, le precipitazioni estreme aumenteranno, così come il livello del mare, con conseguenti rischi di inondazioni costiere, erosione e salinizzazione. Gli impatti del cambiamento climatico saranno tanto più rilevanti quanto più aumenterà il riscaldamento globale. Da questo quadro emerge la necessità di una urgente riduzione delle emissioni di gas serra.
"Manca l’approvazione del Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici, che permetta di implementare sul territorio gli interventi necessari a migliorare la resilienza dei sistemi naturali e dei settori socio-economici rispetto alle minacce del cambiamento climatico"
L’impressione è che, rispetto ai cambiamenti climatici, il Paese continui a rincorrere le emergenze, anziché prevenirle e gestirle, soprattutto a causa della mancanza di una visione integrata ai problemi. Da questo punto di vista il ruolo dell’ISPRA sarà strategico, poiché la conoscenza sarà fondamentale per pianificare gli interventi sul territorio. Occorre una maggiore sinergia tra i diversi Enti ed Istituzioni per affrontare la crisi climatica?
Rispetto ai cambiamenti climatici, qualche Paese sta rincorrendo le emergenze, ma è vero che alcuni, più di altri e dell’Italia stessa, hanno un approccio preventivo e una migliore capacità di gestire e affrontare le situazioni eclatanti che i cambiamenti del clima stanno sempre più determinando sui territori. In Italia stenta a partire una vera e propria politica di adattamento ai cambiamenti climatici che affronti gli impatti in maniera integrata e olistica: la visione generale sulle problematiche poste dal cambiamento climatico sul nostro territorio c’è ed è stata messa a punto grazie alla prima Strategia italiana di adattamento ai cambiamenti climatici approvata dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (ora Ministero della Transizione Ecologica) nel 2015, a cui ISPRA ha contribuito. La Strategia mette in guardia da una serie di rischi che potrebbero coinvolgere i sistemi naturali, gli aspetti sociali e l’economia del nostro Paese. Manca però la conclusione del passo successivo, l’approvazione del Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici, che permetta di implementare sul territorio gli interventi necessari a migliorare la resilienza dei sistemi naturali e dei settori socio-economici rispetto alle minacce del cambiamento climatico. La bozza del Piano risale al 2018, è stata avviata a procedura di Valutazione Ambientale Strategica ed è attualmente in fase di revisione con il coordinamento del Ministero della Transizione Ecologica.
ISPRA e SNPA lavorano da tempo per consolidare e migliorare la conoscenza sia in termini di quadri climatici che di impatti, anche attraverso la messa a punto e l’aggiornamento di opportuni indicatori che permettano di descrivere l’evoluzione dei fenomeni nel tempo. Ma è solo con un approccio integrato e una maggior sinergia fra i diversi Enti e Istituzioni coinvolti che la crisi climatica (nelle sue cause e conseguenze) potrà essere affrontata adeguatamente: i cambiamenti climatici ci riguardano in tutti gli ambiti della nostra vita quotidiana e a tutti i livelli della governance, dal nazionale al locale, e ognuno dovrà fare la propria parte.
"Oggi, a scala planetaria, l'ambiente marino versa in una situazione piuttosto critica: è in atto un processo causato da molteplici fattori di origine umana che sta determinando il degrado degli ecosistemi marini, provocandone una perdita di biodiversità e la capacità di assicurare beni e servizi essenziali"
L’inquinamento marino continua ad essere sottovalutato rispetto al suo impatto sui cambiamenti climatici, eppure la maggiore parte dell’ossigeno nell’atmosfera è generato dal mare. Come a dire: finché il mare è blu, di ciò che sta sotto la superfice non dobbiamo interessarci. E ciò vale anche per fiumi, laghi e torrenti. Cosa si può (e si deve fare) di più e di diverso per la tutela degli oceani e della biodiversità marina?
Gli oceani e i mari che ricoprono oltre il 70% della superficie del pianeta e formano il 95% della biosfera guidano i sistemi meteorologici che influenzano il complesso degli ecosistemi del nostro pianeta. Il “nostro” Mediterraneo, in particolare, è un hot-spot di biodiversità marina: nonostante abbia una superficie che si avvicina solo all’1% della superficie oceanica mondiale, sembra arrivi ad ospitare sino al 12% della biodiversità marina del nostro pianeta. Si parla di oltre 15.000 specie marine, di cui quasi i 30% endemiche, ovvero presenti solo nel nostro mare.
Oggi, a scala planetaria, l’ambiente marino versa in una situazione piuttosto critica: è in atto un processo causato da molteplici fattori di origine umana che sta determinando il degrado degli ecosistemi marini, provocandone una perdita di biodiversità e la capacità di assicurare beni e servizi essenziali. Quali sono le principali pressioni che l’uomo esercita sugli ecosistemi marini? L’inquinamento, dovuto agli scarichi delle industrie e dell’agricoltura intensiva, il sovra-sfruttamento delle risorse e in particolare la pesca eccessiva, i cambiamenti climatici e l’acidificazione dei mari, gli usi eccessivi del mare determinati da imponenti attività di trasporto e da quelle estrattive, l’introduzione e la diffusione di specie provenienti da altri mari.
L’Umanità deve cambiare il suo modo di interagire con gli oceani: l’Europa ha iniziato ad affrontare il cambio di approccio con i suoi mari nello scorso decennio, con l’avvio dell’implementazione della Direttiva Quadro per la Strategia Marina, che impone agli Stati europei di adottare comportamenti adeguati a raggiungere e/o mantenere il buono stato dell’ambiente marino e che in Italia vede l’impegno diretto di ISPRA e SNPA, a supporto del MiTE, per la sua implementazione e per la conduzione delle attività di monitoraggio.
L’ultimo World Ocean Assessment delle Nazioni Unite ha identificato cinque drivers principali delle pressioni che l’uomo esercita sui mari e sulla loro biodiversità: : la crescita della popolazione e i cambiamenti demografici, le attività economiche, l’avanzamento tecnologico, il cambiamento delle strutture di governance e l’instabilità geopolitica, e il cambiamento climatico provocato dalle emissioni di gas serra di origine antropica. Detto studio, che indica come obiettivo il raggiungimento di “un oceano sano e resiliente dove gli ecosistemi marini sono compresi, protetti, recuperati e gestiti”, identifica due aspetti da affrontare a scala planetaria: la “pulizia dell’oceano”, con l’eliminazione dell’inquinamento, dei rifiuti solidi e delle fonti di rumore e la “protezione degli ecosistemi marini”. È quindi ormai chiara la necessità di attuare misure di gestione che permettano la salvaguardia di una parte degli ambienti marini, a partire dalle specie e dagli habitat di interesse conservazionistico. L’Italia dispone già di un’importante rete di AMP nazionali e di aree protette marine afferenti alla rete europea NATURA 2000, la maggioranza delle quali però è costiera. Uno dei principali target per i prossimi anni è quindi la creazione di nuove aree protette in mare aperto. In questo ambito il Ministero per la Transizione Ecologica (MiTE) e ISPRA hanno la responsabilità dell’attuazione di uno specifico progetto del Recovery Plan, la “Linea di intervento 2.4.1 Marine Ecosystem Restoration (MER)” approvata dalla CE (investimento 3.5 – Ripristino e tutela dei fondali e degli habitat marini del PNRR), che ha l’obiettivo di consentire all’Italia di rispondere efficacemente alla Strategia Europea per la Biodiversità. Questo progetto, che terminerà nel 2026, prevede tra i suoi numerosi obiettivi la mappatura di habitat marini costieri e di acque profonde di interesse conservazionistico e attività di ripristino ecologico dei fondali e degli habitat marini, tutto ciò in modo che l’Italia risponda efficacemente agli obiettivi definiti dalla strategia EU per la biodiversità per il 2030.
"Tra i fattori chiave di perdita di biodiversità vi è l'agricoltura e in generale il sistema agro-alimentare, secondo molti studi il principale fattore del declino della natura"
Per rimanere in tema di tutela della biodiversità, alla luce della Strategia europea, quali interventi sono auspicabili a livello nazionale per andare nella direzione di uno sviluppo produttivo sostenibile, penso ad esempio all’agricoltura. E perché la perdita rilevante di biodiversità è considerata una minaccia ambientale dalle conseguenze disastrose?
La Strategia UE per la biodiversità per il 2030 indica ai governi dei Paesi membri dell’UE un percorso molto chiaro per arrestare e invertire quel processo che alcuni scienziati, perdendo lo stile solitamente compassato, chiamano “annientamento biologico del pianeta” o “la sesta grande estinzione di massa”, a causa dell’accelerazione del numero di estinzioni di specie e distruzione di habitat, un processo che, è bene ricordarlo, interessa anche il nostro Paese, nonostante i tanti sforzi e le tante storie di successo degli ultimi decenni.
Occorre, prima di tutto istituire una rete ampia di aree protette, almeno il 30% di terre e il 30% dei mari dell’UE, di cui un terzo con una protezione rigorosa, privilegiando le aree ad altissima biodiversità e valore climatico (come le foreste vetuste e gli ecosistemi ricchi di carbonio). Attualmente in Italia il 20% delle terre è soggetto a regime di protezione, in linea con la media dell’EU. Molto resta da fare per raggiungere questo obiettivo, ma è alla nostra portata. Il nostro compito è di supportare il MiTE nell’individuazione delle nuove aree da sottoporre a regime di tutela, rigorosa o meno, facilitare la connessione ecologica tra le aree protette e gli altri sistemi efficace di conservazione della natura e suggerire statuenti e pratiche per il miglioramento della loro governance e gestione.
E’ evidente però che occorre tutelare la natura e la biodiversità nel restante 70% di terre e mari europei. Per questo la Strategia UE per la biodiversità chiede a ogni Paese di definire un piano per il recupero funzionale e strutturale degli ecosistemi e delle dinamiche naturali. Ciò implica una serie di impegni e azioni concrete per riqualificare, recuperare e ripristinare gli ecosistemi degradati in tutta l’UE entro il 2030 e gestirli in modo sostenibile, affrontando i fattori chiave della perdita di biodiversità.
Tra i fattori chiave di perdita di biodiversità – e qui rispondo alla seconda parte della domanda – vi è l’agricoltura e in generale il sistema agro-alimentare, secondo molti studi il principale fattore del declino della natura.
La Strategia per la Biodiversità, insieme alla Strategia Farm to Fork (indirizzata alla riforma del sistema agro-alimentare europeo), definiscono il percorso da seguire nei prossimi anni per garantire la transizione ecologica verso un sistema di produzione e consumo basato sull’uso sostenibile delle risorse e del territorio, come la riduzione del 50% dell’uso dei pesticidi chimici entro il 2030, la riduzione delle perdite di nutrienti di almeno il 50% e la garanzia che non si verifichi un deterioramento della fertilità del suolo.
Gli strumenti economici principali a sostegno del passaggio verso sistemi alimentari sostenibili sono la Politica Agricola Comune (PAC) e la Politica Comune della Pesca (PCP), ma altre risorse potranno venire dal Fondo InvestEU e da Horizon Europe.
