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FEDERICO RIGANTI

FEDERICO RIGANTI

Università di Torino, Fellow dell’Istituto Bruno Leoni

Le elezioni settembrine: la sostenibilità tra “pancia” e “testa” del Paese.

Il periodo elettorale – e le correlate, inevitabili, promesse dei partiti – assumono, in occasione dell’attuale tornata di votazioni, un sapore diverso dal solito.

Se per un verso, infatti, al “nuovo che avanza” parrebbe essere ancora preferito “l’eterno ritorno” di attori e programmi già noti, per l’altro verso è evidente l’irruzione, nell’agenda politica italiana che verrà, di temi un tempo incautamente tenuti sullo sfondo, ma oggi capaci di mettere in dubbio alcuni assi portanti della nostra società.

Con riferimento al primo profilo “gattopardiano”, poco di interessante parrebbe potersi dire salvo evidenziare, con una certa vena di rammarico, l’incapacità del sistema politico di rinnovarsi e, così e di conseguenza, di rinnovare le strutture e gli uomini di governo del Paese. La resistenza verso un anche cauto riformismo è, infatti, elemento ben noto, figlio di diverse cause (dalla morte delle scuole di politica alla necessità atavica di mantenere chiare e altrimenti insostenibili rendite di posizione), e pericolosamente strumentalizzato dalle diverse forze parlamentari al fine di giustificare un del tutto insensato atteggiamento ostile verso quei “tecnici” che, tuttavia, delle medesime (ed irresponsabili) forze hanno dovuto fare da badanti.

Per quanto attiene, invece, al secondo tema, va sottolineato lo strabismo di quei programmi che, per incapacità o malafede, cercano di approcciare temi nuovi con un atteggiamento vecchio ed evidentemente inutile. Un atteggiamento che preferisce fare leva su certe categorie desuete piuttosto che introdurne di nuove ed efficienti, nella paura di non essere compreso dal “Paese reale”.

Ora, anche ammettendo che la politica debba parlare alla “pancia del Paese” – e fermo restando che non di sola pancia è fatto il corpo –, lo svilimento linguistico e concettuale di tematiche “alte ed importanti” con la scusa di dovere rendere il messaggio “commestibile” ai più, è un elemento di forte preoccupazione. E ciò non solo perché sintomatico di una sempre maggiore pigrizia di un’opinione pubblica che parrebbe capace di comprendere solo più messaggi presentati a modo di slogan, bensì anche perché pericolosamente incline a condurre nel vortice dell’ignoranza temi centrali per il nostro presente (così come, a fortiori, per il nostro futuro), quale è quello della sostenibilità.

Sul punto non può infatti negarsi che il continuo “bombardamento” mediatico e partitico indirizzato a contribuire ad una svolta sostenibile e verde delle nostre filiere produttive non solo pecca di una certa presunzione e di una ugualmente certa ipocrisia (leggasi greenwashing), ma si caratterizza anche per l’incauta propensione dei politici a non spiegare i termini reali del problema, ad iniziare da quelli relativi ai soggetti che, della promessa transizione sostenibile, dovranno sopportare i costi. Termini che, anzi, vengono spesso confusi o celati, o addirittura adeguatamente rimodellati a seconda dell’uditorio – o dell’elettorato – auspicabilmente non tecnico che si desidera ammaliare.

In particolare, risulta infatti quantomai fastidioso continuare a sentire promesse di un mondo migliore, del tutto scollegate da un qualsivoglia riscontro pratico sul da farsi. Quanto precede, ancor più in un Paese quale è il nostro, in cui campanilismo e diffidenza regnano sovrani nell’assenza di un comune sentire della “cosa pubblica”.

Al di là di tecnicismi e di più complicate ricostruzioni regolamentari – perché la sostenibilità è, innanzitutto, un difficile groviglio di regolamenti europei – ciò che andrebbe spiegato, con semplice trasparenza agli elettori, è il modello di Italia che dovremo costruire da domani. Un’Italia in cui certi obiettivi minimi di sopravvivenza quale Paese civile e industrializzato devono per forza essere realizzati, nelle modalità che – vuoi più di destra, vuoi più di sinistra – gli elettori sceglieranno, anche sulla base di una valutazione dei costi, in ogni caso inevitabili, e delle eventuali alternative (qui a dire il vero assenti) che la propria decisione comporta.

In quest’ottica, approfondire il tema della sostenibilità con attenzione al dettaglio e precisione di quei particolari che – anche se forse un po’ astrusi e complessi – già governano la materia e quindi il sistema economico è un passaggio necessario, che non si può ridurre a manifesti e programmi elettorali o promesse di ottimi risultati a minimi costi. Serve spiegare non solo le finalità, ma anche i mezzi e, dunque, gli attori (leggasi: chi pagherà) interessati dal processo di transizione di cui in esame. Nonché evidenziare le conseguenze che un mancato adeguamento del nostro sistema a canoni sostenibili così come, di contro, una regolamentazione troppo aspra sul punto possono comportare in tema di competitività e concorrenza tra ordinamenti.

Ecco dunque che, fino a che la responsabilizzazione non toccherà ogni singolo votante e i termini di discorsi complessi (come quello sulla sostenibilità) non verranno spiegati con precisione, i parlamentari ancorché eletti non potranno dirsi per davvero rappresentanti dei cittadini, con conseguente disaffezione (già ampia e così in via di sicura espansione) verso la politica e i suoi protagonisti principali. Il tutto, parrebbe potersi dire, ancora di più in occasione di questa tornata elettorale, nella quale alcune cose fino ad oggi “scontate” (si pensi proprio al tema dell’energia) sono messe in seria discussione.

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