intervista a gianni tamino, biologo, già professore all'università di padova
Prof. Tamino, nell’ambito dell’attuazione della transizione ecologica Lei ha più volte sottolineato l’importanza del ruolo dell’agroecologia. Può spiegarci in cosa consiste e quali sono i cardini di questa visione dell’agricoltura?
L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) definisce l’agroecologia come “lo studio del rapporto fra coltivazioni agricole e ambiente” e cioè le relazioni dell’agricoltura con il suolo, l’acqua, l’aria, la flora e la fauna circostanti. L’agroecologia è allo stesso tempo un nuovo modo in intendere e di praticare l’agricoltura: è sia una nuova scienza che un insieme di esperienze e conoscenze fondate su un nuovo approccio, in grado di orientare i sistemi agro-alimentari verso la sostenibilità e l’equità. L’agroecologia è un nuovo paradigma che utilizza le scienze sistemiche, basate sul concetto di complessità e le applica a modelli di produzione e consumo. Ma soprattutto l’agroecologia parte da basi teoriche e pratiche opposte a quelle riduzioniste della cosiddetta Rivoluzione verde che ha portato all’industrializzazione dell’agricoltura, e consiste nell’applicazione dei principi dell’ecologia alla produzione di alimenti, fibre e farmaci, nonché alla gestione dei campi coltivati intesi come agroecosistemi. Infatti, come spiega uno dei padri di questa disciplina, Miguel Altieri, per l’agroecologia un campo coltivato è “un ecosistema in cui avvengono gli stessi processi ecologici che si ritrovano in altre associazioni vegetali”. Partendo da tali presupposti, l’agroecologia analizza la dinamica delle relazioni ecologiche in modo da “produrre meglio, con minori impatti negativi, con maggiore sostenibilità e con meno apporti esterni”. Ma questa nuova visione non considera solo i fattori biologici e ambientali, ma anche gli aspetti sociali, come il coinvolgimento delle comunità locali e il rapporto tra produttore e consumatore. In altre parole, possiamo promuovere sostenibilità ed equità in agricoltura senza rinunciare alla produttività.
“l’agroecologia analizza la dinamica delle relazioni ecologiche in modo da “produrre meglio, con minori impatti negativi, con maggiore sostenibilità e con meno apporti esterni"
Un famoso adagio ci ricorda che “per cambiare la Natura, bisogna prima capirla”. Tuttavia, l’impressione che è che le politiche attuative della transizione green soffrano di un approccio riduzionista, caratterizzato da tanti interventi indipendenti e isolati, non adeguatamente interconnessi tra di loro. Secondo Lei è un problema di conoscenza o di metodo? Quale dovrebbe essere il ruolo della scienza in questo contesto?
L’agricoltura è nata oltre diecimila anni fa osservando ed imitando i fenomeni naturali che oggi sono spiegati con i principi dell’ecologia, che si può intendere come “economia della natura”. Parlare di economia della natura significa individuare gli ecosistemi come sistemi produttivi: una produzione circolare, garantita dall’energia solare, senza produzione di rifiuti o di inquinamento e senza combustioni, favorendo la biodiversità. Negli ecosistemi, i viventi e le componenti non viventi (come acqua, aria, suolo) sono collegati da relazioni tipiche dei sistemi complessi. Un importante aspetto dei sistemi complessi, a differenza dei sistemi lineari, è che le proprietà che li caratterizzano emergono dalle relazioni che si instaurano tra le parti che li compongono e non sono deducibili o prevedibili solo in funzione delle proprietà che caratterizzano le loro componenti. Così, in un ecosistema non importa quale specie sia presente in una data nicchia ecologica, ma la funzione che vi svolge in relazione a tutte le altre specie. Una transizione ecologica in agricoltura richiede dunque il passaggio da una visione riduzionista ad una sistemica, come nell’agroecologia, obiettivo indicato anche dalla FAO (HLPE Report 14- 2019), e da vari Paesi europei. La transizione agroecologica deve porsi come obiettivo il raggiungimento della riprogettazione dei sistemi agro-alimentari in senso sostenibile, dalla produzione alla trasformazione, alla vendita e al consumo. Questo obiettivo richiede un cambio di paradigma sia scientifico che metodologico.
“la rivoluzione verde è stata ispirata, in un’ottica solo produttivistica, da un’impostazione riduzionista, che ha ignorato la complessità degli agroecosistemi"
Quali possono essere i rischi ( a medio-lungo termine) di un approccio che non tiene adeguatamente conto della complessità del sistema Ambiente?
Come già detto, la rivoluzione verde è stata ispirata, in un’ottica solo produttivistica, da un’impostazione riduzionista, che ha ignorato la complessità degli agroecosistemi. Questa impostazione ha comportato, oltre a un incremento di produttività, un notevole aumento dell’energia impiegata in agricoltura. Questa energia aggiuntiva è fornita dai combustibili fossili sotto forma di fertilizzanti, pesticidi ed energia per la lavorazione del terreno, per i trasporti, per l’irrigazione, per le trasformazioni del cibo, ecc. Secondo Mario Giampietro e David Pimentel, la Rivoluzione Verde ha aumentato di decine di volte il flusso di energia rispetto all’agricoltura tradizionale. Ciò significa che il sistema alimentare utilizza più energia fossile di quella solare catturata dalle piante coltivate. In conseguenza di tale logica, la superficie adibita ad agricoltura industrializzata non solo non è in grado di assorbire la CO2 come potrebbe farlo un equivalente bosco o prato o campo coltivato con metodi tradizionali, ma anzi produce più CO2 di quanta possa assorbire, contribuendo al grave problema dell’effetto serra. Altrettanto vale per l’acqua: quando piove, un terreno ben lavorato e ricco di materia organica assorbe e trattiene l’umidità, mentre nei terreni coltivati in modo industriale e concimati con fertilizzanti di sintesi l’acqua o scorre via o va in profondità. A causa di questo modello produttivo, siccità e cambiamenti climatici stanno mettendo a rischio il futuro dell’agricoltura, che avrà sempre più bisogno di acqua, impoverendo le falde. Inoltre l’agricoltura industriale ha portato a un forte indebitamento dei Paesi più poveri, che sono stati costretti a produrre soprattutto cibo di lusso per i Paesi ricchi (ananas, banane, caffè, tè ecc.), senza garantire cibo per i più poveri. Ma anche a livello dei Paesi ricchi, questo tipo di agricoltura pone rilevanti problemi ambientali e sanitari: inquinamento delle falde (a causa sia dell’impiego di fertilizzanti che di pesticidi), accumulo di residui tossici nell’intera catena alimentare, incremento del tasso di emissioni gassose connesse all’effetto serra, riduzione della fertilità dei suoli.

GIANNI TAMINO
Biologo, già professore all’Università di Padova, esperto in Biosicurezza e Biotecnologie